Lo squalo fossile gigante, del genere Cretoduse (lungo 7,5 metri), è stato studiato da un team di paleontologi delle università di Padova e di Ferrara, del Cnr di Padova e della Soprintendenza del Friuli Venezia Giulia, e con la collaborazione delle Soprintendenze di Verona e di Padova, del museo di Storia naturale di Verona e del Museo di Sant’Anna di Alfaedo (Verona). Un approfondinento dello studio è sul giornale il Bo dell’ateneo patavino. Di questo genere di squalo, estinto da 80 milioni di anni, si conoscevano finora solo i denti – già rinvenuti in Europa, negli Stati Uniti, in Africa e in Asia – oggi, grazie allo studio pubblicato sulla rivista “Palaeogeography, Palaeoclimatology, Palaeoecology” si possono approfondire le conoscenze sul suo apparato dentale (oltre 120 denti), la sua struttura attraverso i frammenti di cartilagine calcificata e di gran parte della colonna vertebrale e il suo aspetto esteriore grazie ai piccoli denticoli che ricoprivano la sua pelle. Ma l’eccezionalità della scoperta sta nel fatto che il reperto fossile di squalo gigante conserva, nella zona dove si trovava lo stomaco, i resti del suo ultimo pasto: un enorme bolo dal contorno subcircolare costituito da ossa di una grande tartaruga marina. “Lo squalo ha dilaniato la tartaruga, un rettile con una lunghezza totale capace di superare i due metri – ha detto Jacopo Amalfitano del dipartimento di Geoscienze dell’università di Padova – ne ha frantumato le ossa e un suo dente è rimasto inglobato tra esse. Dopo averla inghiottita è morto e si è depositato sul fondale prima di digerirla”. Si tratta di una delle più spettacolari e incontrovertibili testimonianze di preferenza alimentare di uno squalo estinto del Cretaceo. E ciò non è dissimile dal comportamento predatorio di alcuni squali di oggi, lo squalo bianco e lo squalo tigre, che attaccano proprio le tartarughe marine. La zona dove è stato trovato il reperto è particolarmente significativa per i ricchi giacimenti di vertebrati marini fossili di età cretacea. Verso la fine dell’Era Mesozoica, quando la Terra era popolata dai dinosauri, le Alpi non esistevano ancora e al loro posto si estendeva l’Oceano della Tetide. La zona dove oggi si trovano i Monti Lessini, a nord di Verona, era ricoperta da un mare relativamente profondo e lontano dalle zone emerse. Su quei fondali si depositavano fini sedimenti carbonatici. Le rocce stratificate di colore rosato derivate da quei sedimenti, sono estratte da centinaia di anni nella Lessinia per scopi edilizi. “I lavori di cava – ha spiegato ancora Amalfitano- hanno portato alla luce i resti fossili della fauna che popolava quell’antico mare scomparso: grandi squali, tartarughe marine e gigantesche lucertole chiamate Mosasauri”. Gli eccezionali fossili provenienti dai dintorni di Sant’Anna d’Alfaedo sono oggetto di un progetto di ricerca di ateneo finanziato dall’università di Padova e coordinato dal dipartimento di Geoscienze che vede coinvolti, tra gli altri, anche studiosi dell’università di Torino, Vienna e Monaco e che ha recentemente portato alla segnalazione di un ulteriore fossile eccezionale, un grande Pesce Sega, ora estinto. “Il Progetto di ateneo entro cui si è svolta la ricerca – ha dichiarato la prof.ssa Eliana Fornaciari del dipartimento di Geoscienze e responsabile del progetto – è focalizzato allo studio multidisciplinare di due ricchi giacimenti di vertebrati marini fossili di età cretacea (circa 100-80 milioni di anni fa) presenti in area veneta. L’interesse scientifico risiede nel fatto che questi giacimenti si sono formati durante un intervallo di tempo caratterizzato da forti perturbazioni del ciclo globale del carbonio in una fase di caldo estremo (“super greenhouse”). Si tratta di un’opportunità unica per studiare le relazioni tra biota – insieme della vita vegetale e animale che caratterizza un’area – e le perturbazioni globali del ciclo del carbonio, del genere  d’Alfaedo.

Lascia un commento