La possibilità di impiego per il detenuto lo agevolerà e sosterrà per il suo futuro cammino di inserimento nella società e, contestualmente, per l’imprenditore il lavoro penitenziario sarà una risorsa “a portata di mano” sul territorio, un immediato rendimento economico e non semplicemente una forma di assistenza sociale. Secondo uno studio statistico della Regione Veneto risulta particolarmente positiva e rilevante la crescita nell’ultimo decennio della quota di detenuti che lavora in Veneto: al 30 giugno 2016 è il 39,4% dei reclusi (quasi tredici punti percentuali in più del 2006), il valore più alto a livello nazionale. Rilevante per il Veneto è l’aumento avvenuto negli ultimi anni, determinato da una molteplicità di variabili, individuate nella particolare sensibilità del territorio, nella capillare opera di promozione ed informazione promossa dal Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, nonché nell’intuizione da parte degli imprenditori relativa alla possibilità di interpretare il carcere come una risorsa. In proporzione sono maggiormente occupate le donne detenute rispetto agli uomini e gli italiani rispetto agli stranieri, per lo più marocchini, romeni e albanesi, in linea con le cittadinanze straniere più presenti nel territorio. In dettaglio, nel 2016 il 62% delle detenute ha un lavoro (in Italia 40,5%) contro il 38,2% degli uomini (25,5% in Italia) e tra gli stranieri (che sono oltre la metà dei reclusi) il 35,3% è inserito in un’occupazione a fronte del 45,5% registrato fra i condannati di cittadinanza italiana. L’Italia registra un tasso di detenzione molto più basso della media europea: secondo i dati Eurostat, nel 2014 sono 90 i detenuti per 100.000 abitanti contro i 119 dell’Ue28. E ancora più basso è il tasso in Veneto che al 31 dicembre 2015 si attesta a 42 (86 in Italia). Come è indicato nello studio della direzione statistica della Regione, la popolazione detenuta allocata all’interno delle due Case di Reclusione e delle 7 Case Circondariali è costituita al 30 giugno 2016 da 2.136 unità, il 6,6% in meno del 2015. I detenuti sono prevalentemente uomini, giovani e con un’istruzione medio-bassa. Gli stranieri sono il 54%, una quota importante, ma che in parte si spiega considerando che, rispetto agli italiani, riescono a usufruire meno delle misure alternative al carcere, perché spesso sprovvisti dei requisiti alloggiativi e dei riferimenti familiari che ne consentono la concessione. Circa il 30% dei ristretti era disoccupato al momento della carcerazione. La durata complessiva della pena è inferiore ai 5 anni per il 54% dei condannati e al 45,4% rimangono meno di due anni da scontare. In questo panorama, l’opportunità per i detenuti di lavorare svolge un ruolo fondamentale per il recupero e il reinserimento che, comunque, nel breve termine, li vedrà nuovamente immessi nel contesto sociale, con il proprio bagaglio di bisogni, il debito penale scontato e la necessità di acquisire pari dignità rispetto ad un qualsiasi cittadino. Come noto, la Costituzione italiana sancisce, all’art.27, il presupposto imprescindibile della pena e della sua funzione: tendere alla rieducazione e risocializzazione del condannato autore di reato. (Nella foto: detenuti impegnati nel lavoro di pasticceria).

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