Scarsa igiene, punture di zanzare, resistenza da parte del virus ai disinfettanti sono i timori di contrarre l’HIV (non è oggetto di questa stima i casi di tatuaggio, eseguito senza le cautele sanitarie, o l’omosessualità). Poi si indica la sottostima dei rischi legati ad eventuali risse tra detenuti (considerate innocue dal 60 per cento degli intervistati) e allo scambio di spazzolini e rasoi. Inspiegabile timore della saliva, che viene ancora considerata veicolo del virus da quattro persone su dieci, e dell’urina, anch’essa temuta come possibile fonte di contagio da quasi una persona su tre. Sono solo alcuni dei dati che emergono dalla ricerca condotta su un migliaio di persone nell’ambito del progetto “Free to live well with HIV in Prison”, che oltre a contrastare lo stigma e a migliorare la prevenzione dell’infezione nelle strutture carcerarie punta a favorire un mutamento nella gestione dell’infezione e a definire modelli di buone pratiche che possano essere adottati anche in altre strutture. La ricerca, presentata in prima nazionale dai promotori del progetto, SIMPSE, NPS Italia e Università Ca’ Foscari Venezia, grazie ad un contributo non condizionato di ViiV Healthcare e col patrocinio del Ministero di Giustizia e del Ministero della Salute, offre – per la prima volta – una fotografia della conoscenza sull’HIV nelle carceri italiane (sono stati oggetto dell’indagine 1o istituti penitenziari,  uno per i minori e altri femminili). E svela le false paure e i rischi non riconosciuti che intralciano l’efficacia della prevenzione, tracciando le linee per prevenire e combattere l’infezione. “Ca’ Foscari ha partecipato al progetto per dare continuità a un’attività di ricerca sull’HIV che ha già prodotto in questi anni dati importanti sulla conoscenza dell’HIV/AIDS e sulla esistenza di pregiudizi tra la popolazione generale, gli adolescenti, gli immigrati e la comunità LGBT, hanno ricordato Fabio Perocco e Alessandro Battistella, docenti dell’Università Ca’ Foscari. Oggi i nuovi dati, riferiti a detenuti adulti e minorenni, e su chi lavora in carcere si rivelano utili per definire interventi di formazione e informazione che la ricerca ha dimostrato essere necessari”. Innovativa, come detto, la modalità di approccio utilizzata che ha preso il via dalla raccolta dei dati che rivelano il livello di conoscenza sull’infezione da HIV nelle carceri, per erogare una formazione ad hoc e promuovere la prevenzione anche con l’ausilio dei test. Va inoltre segnalato che  un detenuto su cinque considera giusto che non si conosca l’eventuale sieropositività di un compagno di cella. La ricerca mette in luce anche il valore dell’educazione tra pari per fare una corretta informazione sia nei confronti della popolazione carceraria sia della polizia penitenziaria. In questo senso, tra i molti aspetti considerati, l’attenzione si è concentrata sulla disponibilità degli stessi detenuti a diventare “educatori” nei confronti degli altri. Complessivamente il 47,7 per cento la considera una buona idea, dato che tra compagni ci si ascolta più facilmente e ci si capisce di più. Tra i dati emersi, va sottolineato anche un dato preoccupante: la limitata fiducia da parte delle persone nella terapia per l’infezione da HIV. Solo il 68% dei detenuti la assumerebbe se si scoprisse sieropositivo. L’originalità del progetto è rappresentata dall’introduzione negli istituti, per la prima volta, dei test HIV rapidi che, in associazione ad un programma formativo allargato anche a personale sanitario e polizia penitenziaria, si sono dimostrati uno strumento di screening valido per la rapidità di risposta, l’immediatezza di esecuzione e la possibilità di realizzare un counselling efficace. “Il progetto Free to live well with HIV in prison è stato condotto con competenza dalla nostra Società Scientifica che ha inteso sperimentare una cooperazione multiattoriale con partner eterogenei per competenze e mission al fine di integrare i rispettivi know how in iniziative innovative e con una forte ricaduta sistemica. Le singole specificità – ha dichiarato Luciano Lucania, presidente di SIMSPe – hanno rappresentato un valore aggiunto unico per il progetto, i cui risultati sono certamente destinati a generare degli effetti sostenibili e duraturi. Molti soggetti hanno detenzioni di breve durata – ha spiegato Serena Dell’Isola, Coordinatrice Scientifica del progetto –  e la possibilità di fornire e somministrare i test, il trattamento farmaceutico e un collegamento ai servizi di assistenza consente di migliorare la salute dell’intera società, riducendo il rischio di trasmissione e i costi legati alle comorbilità collegate a tali infezioni”. Soddisfazione è stata espressa da Margherita Errico, Presidente NPS Italia la quale ha affermato: “abbiamo raggiunto l’obiettivo di formare quelle aeree del nostro paese di difficile accesso, ovvero detenuti e personale che lavora nelle strutture penitenziarie ottenendo validi dati socio-scientifici che finora in assoluto non avevamo rispetto all’Hiv e allo stigma che vi ruota intorno, arrivando ad un dialogo quasi individuale con tutti gli attori coinvolti. La sfida futura? Continuare ed ampliare il nostro raggio di azione”. “NPS Italia è da anni attiva in progetti di prevenzione e informazione nelle carceri italiane attraverso il lavoro dei suoi peer educator – ha sottolineato Mario Cascio, Peer educator – e ha preso parte con grande entusiasmo a questo progetto innovativo che ha visto per la prima volta in Italia la possibilità di fornire test rapidi in carcere e una formazione specifica al personale carcerario, due strumenti che hanno saputo integrarsi al lavoro di noi peer educator che attraverso la propria testimonianza cercano di sollecitare nei detenuti un atteggiamento più proattivo nei confronti della propria salute e allo stesso tempo incidere sullo stigma e le discriminazioni presenti in ambito carcerario”. In una news del magazione dell’ateneo veneziano è ricordato che “ViiV Healthcare ha scelto questo progetto tra altri 22 presentati a livello mondiale, riconoscendone la qualità e l’utilità per una popolazione in cui la prevenzione e il trattamento dell’HIV sono particolarmente difficili – ha detto Maurizio Amato, amministratore delegato di ViiV Healthcare. Di fondamentale importanza la valenza dei partner e l’innovatività della metodologia che integra ottime e diversificate competenze. Siamo particolarmente orgogliosi dei risultati raggiunti da questo progetto perfettamente allineato con la strategia di ViiV”. A Roma, in precedenza della presentazione a Venezia, cioè agli inizi di ottobre, c’è stato un convegno Simspe-Simit dove sono state fornite altre indicazioni. Eccole: intanto risulta in aumento la Tbc. Il quadro Hic-carceri italiane si integra con questi dati: nel 2016 sono transitatati all’interno dei 190 istituti penitenziari oltre cento mila detenuti. Gli stranieri detenuti sono attualmente il 34% dei presenti e la detenzione è un’occasione unica per quantificare il loro stato di salute. Ma anche le patologie psichiatriche risultano essere fortemente diffuse; la schizofrenia appare notevolemente sottostimata, con appena uno 0,6% affetto da questa patologia, che rappresenta in realtà solo i pazienti detenuti con sintomi conclamati e facilmente diagnosticabili, lo stesso dicasi per altre malattie psichiatriche gravi. Notevolmente maggiore è la massa di coloro che hanno manifestazioni meno evidenti ed uguale bisogno di diagnosi e terapia e non vengono spesso valutati. Ma i dati più preoccupanti provengono dalle malattie infettive. Si stima che gli Hiv positivi siano circa 5.000, mentre intorno ai 6.500 i portatori attivi del virus dell’epatite B. Tra il 25 e il 35% dei detenuti nelle carceri italiane sono affetti da epatite C: si tratta di una forbice compresa tra i 25 mila e i 35 mila detenuti all’anno. Dallo scorso giugno l’Agenzia Italiana del Farmaco ha reso possibile la prescrizione dei nuovi farmaci innovativi eradicanti il virus dell’epatite C a tutte le persone che ne sono affette.

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